Minori stranieri e famiglie d’origine,così il Protettorato mantiene i legami

“Conservare, anzi rafforzare i legami tra il minore e la famiglia, superando difficoltà, ostacoli e anche barriere linguistiche: è uno dei principi fondamentali e irrinunciabili su cui si basa il lavoro del Protettorato. E questo vale anche quando il minore accolto è straniero, arrivato da lontano, non accompagnato e pronto, per così dire, a costruirsi una vita lontano dai suoi. Anche in questo caso, forse soprattutto in questo caso, il legame con la famiglia d’origine e la partecipazione di questa al progetto di accoglienza e inclusione è fondamentale. Era necessario costruire un percorso, un protocollo che non c’era: l’abbiamo fatto e sperimentato. E possiamo dire che funziona molto bene, rispondendo a un bisogno profondo quello che ogni figlio ha di condividere il proprio percorso e la propria crescita con i propri genitori, per quanto distanti questi siano”.

Così Elda Melaragno, presidente della Fondazione Protettorato San Giuseppe, parla del Protocollo per i legami tra minori stranieri accolti e famiglie d’origine, ideato, elaborato e sperimentato dalla Fondazione stessa, nell’ambito del progetto Sai: un Protocollo che descrive passo passo il modo in cui debbano costruirsi e rinforzarsi i legami non solo tra il minore e la sua famiglia, ma anche tra il Protettorato e la famiglia. L’obiettivo, come si legge nel testo del Protocollo, è “far divenire la famiglia d’origine una interlocutrice presente nel processo di inserimento dei figli lontani sempre nel rispetto della volontà del minore. In questo processo vi è il pieno coinvolgimento del minore che viene informato sin dal suo ingresso in Struttura sulla pianificazione degli incontri con la propria famiglia”. Da un anno e mezzo circa, questo protocollo è a tutti gli effetti operativo.

Abbiamo intervistato Maria Rizzo, educatrice della Fondazione e referente del progetto SAI.

Quando è venuto in mente di introdurre un protocollo specifico dedicato a questo?
Non c’è stato un momento preciso di introduzione del protocollo, perché la cura ed il mantenimento dei legami familiari si sono rafforzati nel tempo fino a divenire un criterio di riferimento per lo sviluppo di una metodologia strutturata, messa in atto per garantire la continuità delle relazioni significative che il minore ha costruito nella sua vita. È un tema che sentiamo molto forte e su cui riflettiamo insieme ad altre realtà, sollecitati anche dal Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza, che ha dedicato a questo una giornata di confronto e riflessione, dal titolo “Radici affettive: il valore delle relazioni familiari nell’accoglienza di Minorenni migranti soli. Esperienze, prospettive e sviluppi“: un’occasione importante di approfondimento, alla quale abbiamo partecipato con grande interesse, portando la nostra esperienza. Non dobbiamo dimenticare che i ragazzi dopo la separazione dai legami familiari, dagli amici, dalle abitudini e stili di vita, affrontano viaggi traumatici, ritrovandosi in poco tempo a ricostruire la propria identità in un nuovo Paese, con modelli culturali e linguistici differenti. L’allontanamento genera inevitabilmente una perdita sia in termini di quotidianità che di continuità dei legami. Per questo motivo, nel nostro approccio metodologico, la famiglia d’origine diventa un riferimento importante in tutto il periodo di accoglienza. La separazione dai genitori non fa venire meno la loro esistenza e questo aspetto non può essere trascurato: è invece importante considerare che la famiglia resta comunque presente e riveste un ruolo fondamentale nella loro vita.

I ragazzi si aspettano di venire accompagnati in questo percorso
Il minore viene informato, sin dal suo ingresso in Struttura, sulla possibilità di mettersi in contatto con i propri genitori. Solitamente vi è piena adesione alla richiesta di coinvolgimento della famiglia nel progetto educativo, fino ad ora non abbiamo avuto nessuna resistenza da parte dei ragazzi. Ci tengo a precisare che in primo piano c’è sempre l’ascolto e il rispetto della volontà dei minori di mantenere i legami familiari: gli incontri vengono organizzati soltanto a seguito del loro consenso.

Quali sono le principali criticità che vi trovate ad affrontare?
Le maggiori difficoltà si riscontrano quando la famiglia non possiede dispositivi elettronici in grado di garantire l’incontro da remoto. Può capitare che la zona nella quale vivono non sia coperta da rete internet o sia presente un segnale telefonico molto debole. Questo purtroppo non facilita la realizzazione dell’incontro e di conseguenza si necessita di un po’ più di tempo prima di conoscere i familiari.

Come si svolgono praticamente i colloqui? con quale frequenza avvengono i contatti?
La realizzazione degli incontri è pianificata e organizzata insieme al nostro mediatore linguistico-culturale, Akram Zubaydi. La mediazione riveste un ruolo centrale e si articola in un percorso graduale, che permette di generare un’alleanza educativa con le figure parentali. Nella prima fase il mediatore effettua il contatto iniziale con la famiglia: questo permette di conoscere l’assetto familiare e di instaurare un rapporto di fiducia con i genitori. Nella fase successiva si procede con un secondo colloquio di natura conoscitiva, in presenza di coordinatrice, referente educativo e mediatore linguistico-culturale: in questa occasione, si presentano la struttura e il lavoro progettuale con il minore. Al termine di questo colloquio, si calendarizzano a cadenza bimestrale gli ulteriori incontri, che hanno l’obiettivo di mantenere un aggiornamento e monitoraggio costante di tutta la progettualità condivisa con il minore.

Qual è l’impatto di questo progetto sui ragazzi?
Le soddisfazioni sono grandi: i familiari spesso offrono sostegno nei momenti difficili, mantenendo vive nei figli le motivazioni della migrazione e del nuovo progetto di vita. Accade infatti che nel periodo di accoglienza i ragazzi vivano situazioni di stress e di ansia, che spesso incidono sulla resa nelle attività quotidiane. La partecipazione della famiglia d’origine aiuta i minori a non sentirsi gravati da troppe aspettative e fornisce loro anche un maggiore benessere psicologico e più energie da investire nel progetto educativo.

E l’impatto sulle famiglie?
Il nostro obiettivo primario è quello di tranquillizzare la famiglia rispetto al percorso del minore, tutti i genitori esprimono immediato sollievo nel sapere che il figlio si trova in un posto sicuro e che ci sono molte persone che si prendono cura di lui. Sovente la famiglia manifesta molta gratitudine nel sentirsi coinvolta attivamente nel progetto educativo condiviso con il minore.

E ora diamo la parola ad Akram Zubaydi, il mediatore linguistico-culturale che svolge un ruolo cruciale in questo progetto. Ha 45 anni, è nato in Palestina, si è laureato e specializzato in Cina in medicina tradizionale cinese, ma la sua passione è sempre stato il lavoro sociale, che dal 2011 è il suo mestiere. Vive in Italia dal 2007, lavora in Protettorato dal 2021, ma fin dai 9 anni ha iniziato a fare volontariato. “In Palestina, nei campi profughi, ho imparato quanto sia importante questo impegno”, assicura.

Cosa fa esattamente un mediatore linguistico all’interno del Protettorato?
Aiuta i ragazzi che non parlano italiano a inserirsi in casa famiglia e nella comunità. Io in particolare faccio parte delle équipe delle case famiglia Ghiza e Grillo, in Protettorato: affianco i ragazzi fin dal loro arrivo e in tutti gli ambiti: psicologico, normativo, educativo.

Quali lingue parli e interpreti?
Arabo, inglese e cinese. Ma l’arabo è quella più richiesta qui, perché la maggior parte dei minori stranieri arriva dal Nordafrica. Anche l’inglese è molto utile, perché alcuni arrivano, per esempio, dal Gambia.

Cosa pensi di questo progetto?
Credo sia fondamentale, anzi di più: indispensabile. In un primo momento, i colloqui con i genitori ci aiutano innanzitutto a conoscere le famiglie a tranquillizzarle: i loro figli sono in buone mani. Tra l’altro, una volta che conosciamo la famiglia, per noi è anche più facile comprendere il ragazzo e costruire con lui un progetto. E poi il ragazzo stesso si sente più tranquillo, quando sa che i genitori conoscono i suoi educatori e la situazione in cui è accolto. Si riduce lo stress, perché si sente in famiglia. Con i genitori, abbiamo rapporti anche al di là dei colloqui: possono contattarci in qualsiasi momento, se hanno un dubbio, o una richiesta. E poi ci scrivono per farci gli auguri, o anche solo per un saluto. E non solo i genitori: ci è capitato di entrare in contatto anche con la bisnonna!

Qual è il tema che più frequentemente affrontate con le famiglie?
All’inizio, soprattutto il lavoro. Molti minori stranieri non accompagnati arrivano per lavorare e la famiglia spesso si aspetta che inizino a farlo subito. Il nostro obiettivo è condividere il progetto educativo, far capire loro che il ragazzo minorenne non può lavorare, ma deve studiare, imparare la lingua. Poi parteciperà a corsi di formazione e tirocini, fino all’inserimento lavorativo, ma solo una volta che sarà maggiorenne.

E loro come reagiscono?
All’inizio qualcuno fatica a capire, soprattutto quando, per esempio, il figlio del vicino, partito anche lui per l’Italia, magari già lavora, anche se è minorenne. Dobbiamo far capire loro che è illegale, mentre noi accompagniamo il ragazzo in un percorso legale. Grazie alla consapevolezza che i genitori acquisiscono e alla condivisione del progetto, le famiglie diventano alleate e il livello di stress dei ragazzi diminuisce notevolmente. Non solo: migliora anche il rendimento scolastico, perché riescono a concentrarsi sullo studio, senza avere la pressione del lavoro. Il protocollo è nato per questo: un ragazzo, Adam, insisteva che voleva lavorare. Allora abbiamo deciso di parlare con i genitori: è nata così l’idea di aprire un canale diretto con le famiglie. Grazie a questo progetto, la tentazione di lavorare in nero, che nei minori stranieri è sempre molto forte, svanisce presto. E il ragazzo può concentrarsi sulla propria crescita verso l’autonomia.

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