“Vi servirà benzina, e la comunità è un buon posto dove farne scorta”: è quello che Francesco Cannadoro vuole dire oggi a tutti i ragazzi che vivono in casa famiglia. E lui di esperienza ne ha tante, nella vita – si può dire – ne ha passate tante: e in casa famiglia ci ha vissuto a lungo. Oggi è un papà caregiver. Che significa? Che dedica buona parte del suo tempo a prendersi cura di suo figlio. Perché Tommi, suo figlio, ha una grave disabilità, che richiede tempo, dedizione, attenzioni e terapie.
Francesco Cannadoro, prima di essere papà, è stato figlio: dai suoi genitori però non ha ricevuto neanche la metà delle attenzioni che lui oggi dedica a Tommi. La mamma alle prese con storie di dipendenze e di violenze, il papà per lo più assente, la casa della nonna come unico rifugio sicuro: gli affetti e i luoghi della sua infanzia sono stati precari, incerti, inaffidabili. E poi, ci sono state le comunità alloggio: qui il giovane Francesco è cresciuto, incontrando compagni di avventure e di sventure, ma anche educatori più o meno “capaci”, che in lui hanno lasciato ricordi belli, ricordi brutti, ma tutti certamente hanno lasciato un segno. Nel suo recente libro “Quanto mi servivi” (ed. Ultra, 2021), Cannadoro intreccia il ricordo della sua vita “da figlio” con il racconto della sua vita da “papà caregiver”, che non si fa sconti, non si risparmia, non si tira indietro davanti alle difficoltà. Un libro da leggere, per scoprire come si può crescere e diventare “padri fortunati” – come si definisce lui – anche quando nella vita si incontrano inciampi e fatiche. Ecco cosa ci racconta.
In breve, tua mamma. In breve, tuo papà. Che esperienza hai avuto con loro? E come ricordi la tua vita insieme a loro?
Mia madre, a dispetto di quanto cercasse di mostrare, era una persone decisamente fragile. Vittima di se stessa, ma in primis della sua famiglia. Amo mia nonna e la considero la mia figura materna di riferimento, ma su tre figli che ha avuto, l’unico venuto su bene è quello che è cresciuto con degli zii. E questo penso dica tutto. Questo non giustifica mia madre in quanto tale, ma le dà qualche attenuante in qualità di essere umano. Mio padre è un uomo buono, non fa parte dei cattivi. Ma ha la lancetta delle priorità tarata male. Preferisce aspettare che le cose si risolvano “così così” da sole, piuttosto che prendere il toro per le corna ed affrontare la vita. Lui non perde e non vince mai. È un “no contest” continuo. Ma alla lunga, con questo atteggiamento, è più quello che perdi, senza dubbio. E io sono una delle cose che ha perso.
Come hai vissuto il tuo primo
ingresso in comunità? Cosa ricordi?
Nonostante un leggero
ostruzionismo comportamentale generico (perché volevo stare con mia
nonna, con la quale vivevo fino al momento dell’ingresso in
comunità), non ho vissuto male l’inserimento. Per me era un po’ come
Friends, la serie tv anni 90: un po’ di amici che vivevano
insieme. Ho sempre alleggerito le situazioni della mia vita volando
con la fantasia. L’impressione iniziale di star subendo una punizione
senza aver fatto nulla, svanì abbastanza in fretta, proprio grazie
al mio spirito di adattamento e alla capacità di fantasticare sulle
situazioni. Mi rendo conto di essere stato un dodicenne atipico sotto
questo punto di vista, ma avevo già capito che le cose storte non si
raddrizzano da sole, quindi ci mettevo del mio. In questo caso, come
in tanti altri, il “mio” era la fantasia. Una comodissima
fuga dalla realtà, se vogliamo essere cinici. Ma ognuno ha i propri
appigli. Il problema vero è quando non ne hai.
In quante comunità hai vissuto? In
generale, come consideri le tue esperienze in casa famiglia?
Ho
vissuto in due diverse comunità. La prima tra i 12 e i 15 anni.
L’ultimo anno ero un “esterno”, perché ero tornato a
vivere con mia nonna, ma lei si era trasferita dall’altra parte della
città e la comunità era più vicina a scuola. Quindi pranzavo lì,
facevo i compiti e poi tornavo a casa in tram. Nella seconda ci sono
stato tra i 16 e i 18. Mia nonna ebbe dei problemi economici e chiese
di nuovo aiuto. Mio padre stava in un’altra regione e la sua compagna
mi trattava da schifo e mia madre viveva da qualche parte dentro la
stazione di Porta Nuova, quindi la soluzione fu una nuova comunità.
Sono stato mediamente bene in tutte e due, ma devo dire che nella prima il livello degli educatori – al netto delle frustrazioni personali e dell’incapacità di alcuni/e di tenerle fuori dal contesto lavorativo – era decisamente più alto. Nella seconda, il parco educatori sembrava il roster di un reality show sulla dipendenza emotiva e da sostanze. Quasi tutti casi umani. E la gestione ovviamente ne risentiva. C’era molta più autogestione, a tratti anarchia. Il confine tra noi e loro era molto sottile, in termini di età e di disagio. Poi dall’alto fecero la genialata di inserire anche ragazzi con disturbi psichici, perché nelle loro intenzioni quella comunità doveva virare verso quel tipo di utenza. Il risultato è immaginabile. Diciamo che le comunità me le sono vissute abbastanza bene, ma prevalentemente per merito mio.
Qual è stata la cosa più difficile da imparare e accettare nella vita in comunità?
Sicuramente il fatto che degli sconosciuti, improvvisamente, avessero il potere di dirmi cosa fare e di decidere di me e per me.
Qual è l’aspetto più positivo e l’insegnamento più prezioso della vita in comunità?
L’aspetto positivo della comunità è che non sei mai solo. Certo, uno può sentirsi solo anche ad un concerto di Vasco a San Siro se non ha la mentalità giusta, ma con le persone adatte (che però purtroppo non sempre ho incontrato) una delle cose positive della comunità è proprio il principio su cui si basa: la comunità. E da qui anche l’insegnamento: “insieme” è meglio. A tutti i livelli.
Come ricordi i tuoi educatori? Quale ti è rimasto più nel cuore? E quale invece vorresti dimenticare?
Nel cuore pochissimi. Forse due. E solo una per motivi strettamente legati alla sua professione e alla sua influenza su di me in qualità di educatrice.
Da dimenticare idem. E questo forse è il dato peggiore. La maggior parte degli educatori che ho incontrato sono stati talmente anonimi nella mia esistenza che non sono riusciti nemmeno a farsi odiare. È un dato raccapricciante, che spero nel 2021 sia cambiato radicalmente.
Cosa consiglieresti, oggi, agli educatori che lavorano nelle comunità per minori?
Io credo che quando si tratta di dare consigli, soprattutto per ruoli di questa importanza, l’unica vera cosa da dire sia: credici o fai altro. Purtroppo la gente ha bisogno di lavorare, e spesso accetta mestieri che non sente suoi, ma che gli permettono di tirare il mese. Ecco, questo è uno di quei mestieri che non andrebbero usati per tirare il mese, perché si rischia di fare danni incalcolabili.
Cosa consiglieresti e diresti ai minori che oggi vivono in comunità?
Approfittate di questo momento per rafforzare le vostre difese emotive, fate scorta di “comunità” e traete il meglio da ogni singola persona che vi affianca. Imparate qualcosa da ognuno e crescete.
Fuori sarà diverso e non per forza in meglio. Vi servirà benzina, e la comunità è un buon posto dove farne una buona scorta se si ha l’atteggiamento giusto.
Oggi sei papà di Tommi: una paternità totale e impegnativa. Dici che “ti serviva”: perché?
A tutti serve l’amore. Sentirsi importanti per qualcuno che è importante per te, è qualcosa che ti fa sentire al mondo. E, grazie a lui, finalmente mi ci sento.