Mancano gli infermieri, mancano i medici, mancano i posti letto negli ospedali: le carenze strutturali del sistema sanitario sono venute alla luce con particolare evidenza con la pandemia. Si parla meno, però, di un’altra carenza, non meno grave, che colpisce invece il sistema sociale: quella degli educatori. Il tema è approfondito da Sara De Carli, su “Vita”.
Lo riportiamo integralmente:
di Sara De Carli 30 aprile 2022
L’educativa scolastica è praticamente scomparsa visto che la maggioranza degli educatori ha preferito entrare nella scuola. Le comunità non trovano chi sia disposto a lavorare con turni sempre più pesanti e ragazzi sempre più complessi. Il lavoro sociale oggi è il più necessario e contemporaneamente il più svalutato: Vita accende un faro su questa emergenza. Il numero “Lavoro sociale, lavoro da cambiare” sarà in distribuzione dal 6 maggio
Un tempo le comunità erano “mitiche”, adesso tutti le evitano. Bene che vada, è un posto di lavoro come un altro e quindi ben presto porta al burnout, dato che questo lavoro, senza la passione, è impossibile. Metti l’oggettiva pesantezza del lavoro, tra turni e ragazzi che sempre più spesso presentano anche problemi comportamentali se non tratti psichiatrici; metti l’attacco frontale da anni in atto contro il sistema della tutela minorile; metti il fatto che anche le università preparano più ai servizi per la prima infanzia che alla comunità; metti che lo stipendio iniziale si aggira sui 1.200/1.300 euro netti, notti incluse…… ecco che la mancanza di educatori è così grave che le comunità faticano a rispettare gli standard regionali previsti, entrano in regimi sanzionatori, addirittura chiudono.
Ma i ragazzi restano, con i loro problemi e le loro fragilità. Per dire le dimensioni dell’emergenza, basti pensare solo in Lombardia il Centro per la Giustizia Minorile ha 40 ragazzi da collocare in comunità in misura cautelare, ma non c’è un posto in cui metterli. Il Ministero della Giustizia in tutta Italia ha solamente tre comunità per minori, che andrà a chiudere. Le comunità educative, già così sottopressione, spesso cercano di non prendere ragazzi del circuito penale. Vanno in carcere? Nemmeno, perché anche lì da anni i posti sono scesi. Questi ragazzini così restano a casa, col rischio di reiterare il reato, oppure vengono spediti in Sicilia: lì, poi, si tagliano per farsi rispedire a casa.
Ma anche senza arrivare al penale, basti citare un solo dato, l’ultimo in ordine di tempo: secondo il Rapporto Bes 2021 dell’Istat, appena pubblicato, nel 2021 le condizioni di benessere mentale tra i ragazzi di 14-19 anni sono peggiorate: fatto 100 il benessere mentale, i nostri figli si fermano a 66,6 punti per le ragazze (- 4,6 punti rispetto al 2020) e a 74,1 per i ragazzi (-2,4 punti rispetto al 2020). Gli adolescenti in cattive condizioni di salute mentale passano dal 13,8% nel 2019 al 20,9% nel 2021.
Di questo bisogno enorme, le comunità educative sono la punta dell’iceberg, la parte se vogliamo più visibile del problema. Ma educatori da affiancare ai minori non se ne trovano più, nemmeno per supportarli nello studio con l’educativa scolastica o doposcuola né per progetti di educativa di strada. «All’inizio di questo anno scolastico, dopo il grande esodo degli insegnanti verso la pensione e con le graduatorie vuote, la gran parte degli educatori – scottati anche dal fatto che nel lockdown loro sono stati messi in FIS mentre i dipendenti della scuola no – è entrata nelle scuole con le MAD-messa a disposizione, per incarichi di supplenza. Presi tutti, tanto grande era il bisogno: l’educativa scolastica è scomparsa dalla sera alla mattina», racconta Paolo Tartaglione, presidente della cooperativa sociale Arimo. «Di anno in anno con emendamenti alla legge di bilancio sono state messe limitazioni all’accesso alla professione, senza tenere conto che in questo modo si lasciavano sguarniti moltissimi servizi. Adesso paradossalmente di una legge sugli educatori nessuno parla più, ma una legge in materia non c’è ed è quantomai necessaria».
«Di comunità educative oggi c’è un grandissimo bisogno, mi arrivano anche cinque richieste di inserimento al giorno, ma gli educatori non si trovano. Il settore della tutela minorile paga una narrazione che da anni lo delegittima: aggiungiamoci il fatto che i ragazzi che oggi sono in comunità hanno situazioni molto complesse perché prese in ritardo. La mia cooperativa ha appena chiuso due comunità: servivano sei educatori e ne avevo tre. E non siamo gli unici», dice Liviana Marelli, presidente della cooperativa sociale La Grande Casa. Il suo è un discorso molto ampio: «Ci siamo resi conto, in questi due anni, dell’importanza di figure terapeutiche. Ma oggi il tema più grande è quello della vulnerabilità, non della fragilità. Il confine tra normalità e fatica si fa sempre più labile. Il tema cruciale è riuscire a recuperare il senso della convivenza, la capacità di stare in relazione, di creare un terreno sufficientemente arato in cui l’intervento specialistico per la grave compromissione possa mettere radici ed esprimersi e non diventi, paradossalmente, un elemento di ulteriore esclusione. Questa cura delle relazioni e dei contesti di vita, ciò per cui tu non vivi in un deserto ma hai degli appigli a cui agganciare la tua sofferenza, è ciò che fa l’operatore sociale, la sua professionalità specifica, che sia educatore, pedagogista, assistente sociale. È proprio il valore di questo lavoro a non essere più riconosciuto, per cui anche la comunità alla fine è l’ultima spiaggia dove “consegnare” i casi più complicati – complicati perché nessuno prima se ne è occupato – perché vengano “aggiustati”. È una prospettiva sbagliata, siamo tornati indietro di anni, non c’è alcuna corresponsabilità rispetto al fatto che prima e dopo l’intervento della comunità deve esserci qualcosa, la comunità non può essere risolutiva da sola».
L’urgenza, in questo momento, è avere delle deroghe rispetto ai criteri autorizzativi. Non abbassando la qualità, ma allargando ad altre lauree il titolo di studio con cui è possibile lavorare in comunità. Ad oggi, per esempio, in Regione Lombardia l’unica laurea ammessa è quella in Scienze dell’Educazione (L19), mentre altre regioni sono più flessibili. Forse, constatato che di educatori non ce ne sono, si potrebbe allargare ad altre lauree sempre afferenti all’area socioeducativa ma anche agli educatori sociosanitari, nella consapevolezza tra l’altro del grande bisogno di accoglienza per ragazzi con grave disagio psichico, che non trovano posto nelle NPI e per cui praticamente non esistono comunità terapeutiche: immaginare una diversa composizione professionale dell’equipe sarebbe un arricchimento dal punto di vista della qualità del servizio.