Come parlare di guerra ai bambini e ai ragazzi? I consigli di Daniele Novara


Daniele Novara è tra i più noti pedagogisti italiani. Dirige il Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti. Non ha dubbi nel dire che il conflitto non è un male, anzi “litigare fa bene”. La guerra, però, è un’altra cosa: la guerra non va fatta, non andrebbe neanche pensata. Ma nel momento in cui s’impone ed entra, tramite i mezzi di comunicazione, nelle nostre vite, come parlarne con i bambini e i ragazzi, che sono inondati da notizie e immagini?

Se ne parla in classe, se ne parla in casa, se ne parla in strada, al parco e tra gli amici: da ieri la guerra è entrata con decisione nella vita dei bambini e dei ragazzi, che con livelli diversi d’informazione e formazione, si trovano a fare i conti con un tema complesso, delicato e che può creare preoccupazione.
L’agenzia di stampa Redattore Sociale ha chiesto a Daniele Novara, pedagogista e fondatore del Centro psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti, di fornire a genitori e insegnanti indicazioni e consigli su come affrontare l’argomento.

Innanzitutto, da che età è opportuno parlare di guerra con i bambini? E fino a quando, invece, è meglio proteggerli dalle notizie e le immagini dei conflitti?
La guerra è un fenomeno molto lontano sul piano cognitivo dal mondo dei bambini. Ci sono contenuti sostenibili su piano neurocognitivo e neuroemotivo, altri non sostenibili. In linea di massima, direi che almeno fino a 7-8 anni sia meglio proteggere: a quell’età, il bambino non ha il senso della distanza. Ricordo che, quando cadevano missili su Bagdad, i più piccoli domandavano quando sarebbero caduti sulle nostre teste. Dai 9-10 anni si può iniziare a parlarne, tenendo lontane le immagini di distruzione e di morte. Non abbiamo nessun vantaggio nel creare il panico nei nostri bambini. Anche nel caso della pandemia, abbiamo avuto prova che se l’ambiente è ansiogeno, i bambini diventano ansiosi, possono fare confusione, pensare di essere in pericolo. E quando un bambino pensa di essere in pericolo, dal punto di vista emotivo si attivano corti circuiti non indifferenti, che possono impedire di vivere normalmente: entra in uno stato di contrazione emotiva, che produce anche uno stato di contrazione psicologica e cognitiva. Potrebbe iniziare a dormire male e avere attacchi di aggressività. Non dimentichiamo che lo stesso bambino è già molto provato dalla pandemia, che lo ha sottoposto alle più gravi restrizioni, tuttora in vigore. Se ora aggiungiamo la guerra in Ucraina, raccoglieremo i nostri figli e nipoti col cucchiaino! I bambini hanno bisogno di leggerezza. A me sembra che, in generale, abbiamo perso, come società adulta, la cognizione di quale sia la percezione della vita e della realtà di un bambino. Tendiamo troppo e troppo male a pensare che i bambini siano come gli adulti, ma ovviamente non è così: dovremmo avere molto più rispetto. Ora, come società adulta, dobbiamo impedire a tutti i costi che la guerra entri nel nostro immaginario. Questo è un gravissimo incidente di percorso, visto che nell’ambito della Comunità europea guerre non ci sono più state: l’Europa è un’altra cosa, ma quando si costruiscono troppe armi, il bisogno di usarle diventa quasi insopprimibile. C’è un apparato militare e industriale che ogni tanto deve scatenare una ragione di esistere.

E a scuola? Come dovrebbe essere affrontato il tema della guerra? E quali rischiano di commettere gli insegnanti?
C’è un messaggio molto chiaro, che anche i bambini possono capire e sono quelli della nostra Costituzione: l’Italia ripudia la guerra. Inviterei tutti gli insegnanti a far dipingere dai loro alunni l’articolo 11, così che ogni scuola diventi un monumento parlante di questa scelta di pace. Quello che invece deve essere assolutamente evitato è un errore in cui cadono alcuni insegnanti: mettere in relazione la guerra con i litigi tra bambini. “E’ come quando tu litighi con i tuoi compagni” è una frase sbagliata, è terrorismo educativo. La guerra è violenza, distruzione totale, non c’entra niente coi litigi dei bambini, coi conflitti tra ragazzi. Anzi, come io insegno da sempre, più bambini e ragazzi imparano a litigare bene, più avremo persone contro la guerra. È imparando a gestire i conflitti, che si riduce la violenza.

I social, come la tv, sono pieni di immagini di guerra, sempre più nitide, con volti e armi in primo piano. Questa esposizione può danneggiare i bambini e i ragazzi?
Da tempo i ragazzi sono a contatto con immagini di guerra tramite i social e gli schermi. Pensiamo alla Siria e all’Afghanistan: in quel caso, i nostri ragazzi hanno potuto vedere i tagliatori di teste! Da sempre, come pedagogisti, diciamo ai genitori di non cenare con la televisione e con l’informazione. Questa guerra presenta grosse inquietudini e novità, ma le immagini di distruzione e di morte sono diventate di casa già da tempo, sia con l’invasione dei social, sia tramite i tanti canali televisivi. Genitori e insegnanti hanno la responsabilità di non lasciarsi loro stessi travolgere, di non diventare vittime a loro volta di quello che è uno dei primi scopi della guerra: creare paura e una sensazione di impotenza.

I videogiochi, in particolare Fortnite, hanno in un certo senso “sdrammatizzato” e “deumanizzato” la guerra. C’è il rischio che i bambini lo vivano come “un gioco” e quindi senza empatia?
Non abbiamo prove scientifiche di questo. Certo, sappiamo che i videogiochi portano il cervello dei bambini e dei ragazzi in uno stato di torpore, di annichilimento cognitivo. Non abbiamo riscontri, però, di un automatismo tra contenuto di guerra del videogioco e tolleranza alla guerra reale. Ma il vero antidoto a guerra e violenza è la capacità di gestire bene i conflitti, che va educata fin da piccoli. In seconda analisi, penso sia centrale il tema della memoria: l’attuale generazione di giovani in Europa non vive una guerra da due generazioni. In Europa si muore più di covid che di guerra e questa è una novità storica. I ragazzi hanno dunque una memoria senza guerra e non sono disposti a praticare qualcosa che ormai è uscito dall’immaginario genealogico. Nel 2000 andai ad aiutare i bambini in Kosovo: per loro la memoria genealogica della guerra era molto forte e questo creava, a livello mentale e psicologico, delle disponibilità neurocereberali: come dire, ‘lo abbiamo sempre fatto e continueremo a farlo’. Non è questo il caso della Comunità europea, dove la memoria della guerra si è spenta, creando al suo posto una memoria positiva dei vantaggi della pace. Più complessa è la situazione in Russia, dove guerre ci sono state anche recentemente ed esiste dunque come un’attitudine, che crea un immaginario di un certo tipo. La guerra, fortunatamente, non è nel nostro immaginario: dobbiamo respingere ogni possibilità che torni a essere presente nel nostro immaginario.

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