C’era anche Aly, al tavolo dei relatori, mercoledì 9 novembre in Campisoglio. Accanto a lui l’assessora alle Politiche sociali Barbara Funari, da un lato. E’ stata lei a volere questo incontro e chiedere anche alla Fondazione di essere presente e intervenire, insieme a tutti gli altri soggetti che, ciascuno per il proprio specifico ruolo, intervengono nella presa in carico dei care leavers. Dall’altro lato, accanto ad Aly, cerano altri care leavers come lui: Emanuela, Vera, Bashir, a portare la voce di chi non vuole “lasciare le cure”, ma chiede di essere sostenuto e “curato”, laddove necessario, anche dopo i 18 anni, perfino dopo i 21. Perché “gli altri ragazzi diventano autonomi intorno ai 30 anni, dicono i dati. Mentre da noi si pretende che lo diventiamo a 18”, ha fatto notare Emanuela.
In tanti hanno preso la parola, per raccontare la presa in carico dei ragazzi allontanati dalle famiglie, che a 18 anni vengono allontanati, per legge, anche dalle strutture e dalle comunità che li accolgono. Si può arrivare a 21 anni, se c’è il cosiddetto “prosieguo amministrativo”, che consente di prolungare la presa in carico e l’accompagnamento per altri tre anni, dopo la maggiore età. Ma cosa fare per rendere questa possibilità un diritto certo, un’opportunità su cui poter contare? “E’ una partita fondamentale – ha detto l’assessora – perché si gioca qui il futuro di questi ragazzi e la possibilità, per loro, di realizzare le proprie potenzialità e i propri sogni, senza divenire vittime di quella precarietà e di quella povertà che rischiano di esporli a tanti rischi. Per questo voglio istituire un tavolo permanente, per parlare di care leavers e con i care leavers”. Possibilmente, senza più chiamarli care leavers, come ha proposto Vera, una di loro.
Non chiamateci più care leaver, perché non siamo noi che lasciamo le cure, anzi la presa in carico deve avere continuità, non si può lasciare. Perché gli altri ragazzi, come dimostrano le statistiche, si affacciano alla vita autonoma intorno ai 30 anni, mentre da noi si pretende che diventiamo autonomi a 18, o al massimo a 21? Quando io sono uscita dalla comunità, non avevo idea di come gestire la mia vita, anche economicamente: non avevo mai tenuto in mano una banconota da 50 euro, come avrei potuto fare tutto da sola, improvvisamente? Per fortuna, sono stata aiutata dalla mia comunità, ma per i miei fratelli non è stato così: loro son usciti a 18 anni dalla struttura e sono tornati in una realtà disagiata, dove hanno trovato gli stessi problemi da cui erano stati allontananti. E non dimentichiamo lo stigma sociale: noi che siamo stati ospiti delle comunità siamo svantaggiati, questo va detto e di questo dobbiamo occuparci insieme.
Emanuela è entrata in comunità a 13 anni.
Oggi ne ho 22 e vivo in un appartamento accanto alla struttura che mi ha aiutato a crescere e che continua ad essere un punto di riferimento fondamentale. Il mio sogno è di lavorare nell’antiterrorismo. Un sogno che posso coltivare, grazie al sostegno e all’accompagnamento che ho ricevuto dalla struttura, anche dopo i 21 anni: mi hanno messo a disposizione un appartamento n cui vivere e per me è stata la salvezza. Questo però non succede a tutti: molti non hanno nulla e a 18 anni devono cavarsela da soli. E anche per chi è più fortunato, come me, tanti strumenti non sono facili da ottenere: le borse di studio e il reddito di cittadinanza, per esempio, non sempre sono accordate, perché noi non abbiamo un reddito minimo da dichiarare. E se non hai una residenza dichiarata, non hai accesso a una serie di diritti: io ho potuto votare quest’anno per la prima volta, perché la mia struttura mi ha permesso di prendere la residenza. Insomma, anche oggi, se non avessi una struttura alle spalle, non avrei questa vita e questi sogni. Questo è molto ingiusto, per i tanti che questo sostegno non lo hanno e che a 18 anni non sanno che fare della loro vita. Tutti abbiamo diritto a ricevere strumenti di futuro.
Aly ha 23 anni, è arrivato in Italia che ne aveva 15: tecnicamente, un minore straniero non accompagnato:
Non parlavo l’italiano, non capivo una parola. Sono stato accolto dalla Fondazione Protettorato San Giuseppe e sono stato aiutato in tutto. Io ero pigro, distratto ,non riuscivo neanche a svegliarmi la mattina, ma loro mi hanno sempre spinto”, ha raccontato, emozionato perché “non sono abituato a parlare in pubblico. A 18 anni mi hanno aiutato a trovare un lavoro, adesso ho aperto una partita Iva, voglio aprire una mia attività. Sono loro che mi hanno aiutato a diventare adulto, a capire cosa volevo fare: sono ancora in contatto con gli educatori e con i responsabili, ma anche con i ragazzi, sia quelli che vivono ancora lì sia quelli che sono usciti. Vivo con uno di loro, un ragazzo egiziano che per caso è arrivato lì in Protettorato poco dopo di me: ci siamo ritrovati, siamo diventati molto amici e ora viviamo insieme. Ogni tanto ci ritroviamo, anche con gli altri: proprio domenica scorsa ci siamo dati appuntamento sul campo di calcetto della Fondazione, per una bella partita. Eravamo tanti, tutta la ‘vecchia banda’. Io e Ahmed abbiamo portato anche il nostro nuovo coinquilino milanese: era arrivato solo da tre giorni, non conosceva nessuno, non potevamo lasciarlo a casa. E’ venuto e ha giocato con noi e con tutti gli altri. E’ stato bello e, in quell’occasione, abbiamo deciso di offrirci come volontari per il Protettorato: perché possiamo essere d’aiuto ai ragazzi che arrivano, noi che ci siamo passati e sappiamo cosa significa.
Bashir è arrivato dall’Iraq a 16 anni
Sono andato in casa famiglia e avevo l’incubo dei 18 anni: ma la casa famiglia mi è stata di grande aiuto, erano sempre presenti e attenti, ma mi lasciavano scegliere. A 18 anni sono entrato in un progetto di semiautonomia e ho iniziato a lavorare come mediatore culturale. Il 18 novembre andrò al Parlamento europeo, in rappresentanza di tanti ragazzi come me.
Accanto ai caregiver, ad ascoltare le loro storie e raccogliere le loro istanze, c”erano i rappresentanti di tutte quelle realtà che, in un modo o nell’altro, ciascuno con la propria funzione, incrociano il loro cammino: il dipartimento Politiche sociali e il dipartimento Scuola e lavoro di Roma Capitale, l’Asilo Savoia, i rappresentanti di Agevolando, Agci Lazio Solidarietà, Borgo Ragazzi Don Bosco, Caritas Roma, Casa al Plurale, Cnca, Cncm, Confcooperative Federsolidarietà Lazio, Legacoop Sociale Lazio, Forum Terzo settore Lazio e, ancora, Comunità di Sant’Elpidio, Refugees Welcome, Università Roma Tre, Città dei ragazzi, Scomodo. Tanti gli “strumenti di futuro” di cui si è parlato, che possono e devono essere messi a disposizione di questi ragazzi: tra questi, l’orientamento al lavoro, i tirocini, la solidarietà familiare. ma anche la detassazione dei percorsi universitari, una possibilità questa già offerta dall’Università Roma Tre, ma di cui non tutti sono a conoscenza.
“Dobbiamo coinvolgere tutti – ha detto in conclusione l’assessora Funari – per poter offrire a questi ragazzi gli ‘strumenti di futuro’ di cui parlava Emanuela. Mi rendo conto ogni giorno di quanto sia difficile mettere in campo procedure per incanalare le risorse delle reti, della società civile, della solidarietà. Dobbiamo giocare però questa partita nuova della comunità in dialogo: la vita che cresce nella nostra città ha bisogno di essere ascoltata e accompagnata e ciascuno di noi deve fare la propria parte, ascoltando le istanze dei ragazzi: mi piacerebbe che si desse vita a un modello romano di accoglienza e accompagnamento dei care leavers, per i quali cercheremo insieme a che una nuova definizione, come giustamente suggeriva Vera. Questo capitale sociale deve essere valorizzato, trasformato in politiche e misure e poi raccontato: il tavolo permanente che intendo aprire servirà a fare tutto questo”.
Una richiesta accolta e rilanciata dai due rappresentanti del ministero del Lavoro: “Abbiamo tante risorse finanziarie : se rimarremo in contatto con la rete che oggi si sta riunendo, riusciremo a investirle nella direzione giusta”, ha assicurato Paolo Onelli. E il collega Renato Sampogna ha evidenziato, in particolare, quattro strade da seguire: “Primo, prolungare l’età della presa in carico almeno fino a 25 anni; secondo, non partire dalle fragilità ma dalle potenzialità, come gli stessi ragazzi ci chiedono; terzo, trovare correttivi per superare le criticità burocratiche con cui troppo spesso questi ragazzi si scontrano; quarto, rimettere al centro la figura istituzionale dell’assistente sociale, che ha anche il compito di accompagnare nel superamento di queste criticità”.