Papà gli parlava di Roberto Baggio. Così lui adesso risponde – sorridendo – con quel nome, se gli chiedi chi è il suo giocatore preferito. Anche se non sa nulla del giorno in cui proprio Baggio tirò giù l’Italia dall’aereo, ai Mondiali, rimontando con una doppietta in extremis la sua Nigeria. “Quando? Nel 1994? Troppo tempo fa…”.
La Nigeria, la sua prima vita, la famiglia. C’erano tutti. Poi, perso il padre, la seconda vita in Libia, per giocare a calcio. C’era la mamma. Persa anche lei, in un attentato, la scelta di scappare in Italia. La terza vita. Ad appena 17 anni. In una casa famiglia, al Protettorato san Giuseppe, dove è arrivato dalla Puglia. La voglia di giocare a pallone, per costruirsi, magari, una quarta vita. Anche se è ancora in attesa di alcuni documenti per poter firmare un cartellino. Spera che arrivino entro l’estate, per non doversi più allenare e basta, 5 giorni a settimana, con il Grifone Gialloverde, e poter finalmente giocare allo storico Campo Roma, a San Giovanni, invece di limitarsi a tifare, la domenica mattina, per la squadra che ha appena chiuso al quarto posto il girone A della Promozione laziale, il sesto livello del calcio italiano.
Zaharadeen giocava nelle giovanili dell’Al-Ahly di Tripoli, una delle due squadre più famose della Libia, 12 ‘scudetti’ in bacheca, l’ultimo nel 2016. Quando lui se n’era già andato, perché senza la mamma la vita era diventata troppo pericolosa per un ragazzo di 14 anni. Viveva con 4 compagni in un appartamento messo a disposizione dalla società. Guadagnava bene, dice: “34.000 dinari all’anno”, che al cambio sarebbero più di 20.000 euro. Probabilmente un po’ troppo per un ragazzo delle giovanili, comunque non abbastanza per decidere di restare in un Paese straniero. Senza dirlo alla sorella maggiore, da tempo in Arabia Saudita per studiare (adesso è sposata e ha 3 figli), la decisione di imbarcarsi per l’Italia. Pagando 1.200 dollari per ritrovarsi dopo un viaggio di 13 ore a Reggio Calabria, insieme ad altri 144 fuggiaschi. Da lì, al campo rifugiati di Ostuni. Poi, sempre in Puglia, al centro di accoglienza di Oria. Dove è diventato tifoso della Juve, “che prima non mi piaceva”, convinto da due operatori.
A Roma, al san Giuseppe, è arrivato a dicembre 2017. Ha ripreso ad andare a scuola: in Nigeria era stato il padre a insegnargli prima la religione, poi a leggere e a scrivere; in Libia aveva fatto la “Secondary School”; qui è in terza media e prenderà il diploma quest’anno, ma non in anticipo, perché – come dicono i suoi educatori – vuole avere il tempo giusto per studiare. Loro lo definiscono “un leader positivo”. Lo è sicuramente in campo, dove pensa di assomigliare a Pjanic. In Libia ha giocato con tre maglie diverse: la 10, quella che in tutto il mondo danno di solito ai più bravi, la 14 e la 16. Chissà quale indosserà fra pochi mesi, quella è la speranza, nella prima partita ufficiale con il Grifone Gialloverde. O magari con la Ternana, dove spera di andare a fare un provino.
Non è venuto in Italia per giocare a pallone. Questo ci tiene a dirlo, nel suo italiano già buono, che gli ha fruttato alcuni attestati in Puglia. Ma al san Giuseppe assicurano di non averlo mai visto, sul loro campo, uno così bravo.